
A cura di Ermanno Frassoni
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SHANGHAI – «La squadra ha funzionato alla perfezione, come un orologio italiano». Nel Paese della Pilelli (no, nessun errore di battitura), che non sarà più soltanto il Belpaese, al di là dell’eco derivante dalle parole di Arrivabene nel dopo gara di Sepang, le tornate iniziali vedono Vettel marcare stretto le Mercedes del vincitore Hamilton e di Rosberg, infine perdere qualcosa a partire dallo stint centrale del Gran Premio salvo poi accomodarsi sul terzo gradino. Non sarebbe rispettoso affermare che in Cina, alla Ferrari, qualcosa non ha funzionato alla perfezione, eppure l’impressione è che all’indomani del successo di Seb in Malesia gli addetti ai lavori, i tifosi e forse persino la crew di Maranello si aspettassero di più dalla sfida a distanza tra le Rosse e le «lepri» argentate. Fuori dai denti e contro la logica del «testa bassa e piedi per terra». Perché a Shanghai la filosofia del Cavallino all’insegna dell’Umbrella Revolution, per dirla prendendo le mosse dal movimento hongkonghese pro-democrazia, ha potuto contare su un ritrovato Raikkonen e su un altro podio di Vettel pur incappando nella stordente regolarità dell’orologio cinese assemblato a Stoccarda. La vera rincorsa è iniziata, mentre Williams, Red Bull e compagnia piangente sembrano alle prese con i 400 metri ostacoli tanto cari a Edwin Moses, «microphone man» dei primi tre.